La tecnica rappresentativa del nostro studio, non procede rigidamente da una serie di assunti determinati a priori ed ex novo, ma prende avvio da alcune considerazioni di fondo comunemente condivise nella pratica progettuale, e che in seguito alla loro applicazione ai casi specifici hanno subito progressive evoluzioni. Ciascun elaborato ha contribuito con i propri esiti alla messa a punto di una metodologia ancora in fase sperimentale, ove i risultati ottenuti costituiscono contemporaneamente punti di approdo e di partenza per le esperienze successive, in un percorso continuo di indagine.
La ricerca compositiva fatta assieme all’Arch. Massimo Carmassi e attuata nel corso degli anni accademici nei quali abbiamo collaborato, necessitava di un’analisi puntuale dei risultati per poterne valutare la bontà procedurale. Di qui l’esigenza , emersa sin dagli inizi, di mettere a punto uno standard grafico che non rappresenti solo l’idea progettuale per sommi capi, ma che illustri in dettaglio e senza reticenze i vari aspetti degli spazi.
L’approccio metodologico in questione prevede come assunto di partenza la rappresentazione accurata dello stato dei luoghi, pur nella consapevolezza che ogni rappresentazione, per quanto dettagliata possa essere, costituisce sempre una forma di semplificazione e schematizzazione della realtà. Infatti essa comporta una discreta diminuzione dei livelli di informazione iniziale, poiché non tutto può o deve rientrare nella grafica: in più si deve scegliere cosa riprodurre e cosa no, e in quale forma. Ne consegue che le canoniche illustrazioni bidimensionali, ovvero le piante, i prospetti e le sezioni, da sole non bastano. E’ difficile infatti cogliere ed apprendere appieno la complessità della realtà senza conoscere i luoghi anche da un punto di vista spaziale volumetrico. Decodificare un progetto e comprenderlo in toto solo attraverso proiezioni ortogonali è un’operazione sicuramente possibile e scientificamente provata, ma l’elevato livello di attenzione richiesta, unito alla notevole quantità di tempo impiegata per la comprensione degli spazi, determinano sovente fraintendimenti o interpretazioni fuorvianti.
Si è resa necessaria dunque una tridimensionalità non schematica e sommaria, che punti ad illustrare la realtà nel modo più onesto possibile, proprio al fine di evitare decisioni progettuali banalizzanti o, nella peggiore delle ipotesi, sbagliate. Si è preteso perciò che venissero riprodotti gli edifici, rappresentando le falde delle coperture, gli sporti, le forometrie, le cornici e gli aggetti. Senza queste specifiche e con la sola indicazione sommaria del solido puro, prassi consueta per ragioni di economia di tempo, non si riesce a riconoscere e a distinguere gli edifici tra loro. E’ persino difficile stabilire la datazione stessa di una costruzione, se si tratti o meno di un edificio medievale, settecentesco o della seconda metà del ventesimo secolo.
Un ruolo fondamentale di supporto alla puntuale descrizione dei luoghi va attribuito al disegno automatico, grazie al quale siamo in grado di costruire modelli tridimensionali piuttosto dettagliati, dai quali è possibile poi ricavare le viste sufficienti a descrivere il progetto in maniera esaustiva. Si può obiettare che anche con il disegno manuale era (ed è ancora) possibile dettagliare adeguatamente un’assonometria, una sezione prospettica o una più complessa prospettiva, tuttavia queste ultime richiedevano (e richiedono) una quantità di tempo ed un grado di competenza e di abilità che solo raramente si era disposti ad impiegare, pur ammettendo di esserne in possesso.
Credo sia utile a questo punto fare alcune precisazioni sull’uso dell’espressione “disegno automatico”, anche per meglio comprendere lo spirito degli elaborati contenuti in questo testo. Solitamente le si attribuisce il solo significato di “disegno istantaneo ed immediato”, come a dire che è sufficiente pigiare un tasto per ottenere un disegno voluto. Ciò può sembrare vero, ma nulla è più lontano dalla verità nella pratica progettuale. Infatti se un tempo la matita era un’estensione della mano del progettista e il segno la materializzazione immediata del pensiero, lo stesso non può essere detto per un vettore in un piano cartesiano virtuale. Si è obbligati a confrontarsi con un’entità terza: il software CAD. Prima di poter stampare persino una bozza di progetto si deve possedere una serie di conoscenze a priori circa il funzionamento del programma di cui intendiamo avvalerci.
Quindi sorge la necessità di una buona padronanza da parte dell’architetto di questo nuovo mezzo espressivo prima ancora di tracciare un solo segno. Se non si ha piena consapevolezza di tutto ciò che viene rappresentato graficamente, si rischia di farsi ingabbiare negli automatismi del software di riferimento. Pertanto il disegno è automatico solo in quanto è eseguito materialmente dalla macchina-automa: viene meno la manualità ma sono necessarie altre competenze. Fondamentale risulta perciò la capacità di controllo dello e sullo strumento informatico per riuscire a piegare il software alle proprie esigenze.
Spesso si sente dire che i disegni a mano sono più belli ed evocativi. Questo è sicuramente vero, tuttavia gli elaborati ottenuti mostrano come sia possibile raggiungere anche con il disegno automatico degli standard qualitativi equivalenti, dove una pratica lunga e costante può essere commisurata a quella richiesta per il disegno tradizionale.
Il processo di restituzione tridimensionale dello stato di fatto ne costituisce al contempo anche uno strumento di analisi. E proprio perché richiede una notevole perizia, conferisce all’indagine in questione un discreto grado di accuratezza e di profondità.
Va da sé che la rappresentazione accurata non serve solo a conoscere lo stato dei luoghi, ma anche e soprattutto a misurare il progetto, ad essere sicuri che ciò che si è immaginato sarà il più simile possibile a ciò che sarà il nostro intervento una volta concluso. Minimo o nullo è lo spazio lasciato alla libera interpretazione di chi, in seconda battuta, andrà ad esaminarlo. Si prevede un avvicinamento lento e graduale agli edifici, che procede per aggiunte, sottrazioni, lievi modificazioni e per successive rappresentazioni. Si tratta di una metodologia procedurale che ha tra i propri obiettivi la ricerca di legami profondi e duraturi con l’esistente.
Un’altra convinzione che guida questa ricerca progettuale è che il disegno non sia semplicemente la materializzazione di un’idea astratta che viene prima del disegno stesso, ma sia più propriamente uno strumento di controllo del pensiero e sul pensiero. E’ un fare intellettualmente attivo, che materializza e misura le diverse soluzioni progettuali, man mano modificandole e sviluppandole. Ogni disegno-progetto viene rappresentato ed aggiornato nel processo di materializzazione delle suggestioni. In ogni successiva revisione, non vengono lasciate zone grigie, ma ogni idea viene figurata per poter essere esaminata, controllata e alle volte scartata. Si tratta di un processo di sviluppo iterativo che rivede se stesso nel proprio procedere.
Il controllo della spazialità permette poi il controllo degli aspetti costruttivi e tecnologici, quindi non solo degli aspetti compositivi. A tal proposito, in un’intervista del 2008, il Prof. Massimo Carmassi disse « preferirei che si parlasse di progettazione, perché il termine composizione sembra quasi sconnesso dalle questioni costruttive, mentre in realtà non credo esista alcuna distinzione tra composizione e costruzione: pensare in termini progettuali significa pensare anche in termini costruttivi, poiché gli elementi che ci vengono in mente non possono prescindere da una sostanza materiale» .
All’interno di questa prospettiva va innanzi tutto evitato il rischio che la sola abilità grafica personale diventi uno strumento di fascinazione capace di nascondere in realtà dei progetti mediocri. Vanno evitati inoltre i rischi di un eccessivo schematismo. Se per la nuova architettura ci si può permettere un certo grado di sintesi nel segno, una certa astrazione rappresentativa, questo non è più valido se si parla del recupero di un manufatto. In entrambi i casi non si deve avere l’impressione che il progetto sia una bozza e che i problemi reali vengano risolti solo in un secondo momento da altre figure professionali, che più o meno involontariamente potrebbero snaturare l’idea originaria.
La metodologia grafica sin qui esposta diviene dunque garanzia di un buon livello di serietà e di rigore nell’illustrare gli spazi senza omissioni. Ciò mette al riparo il progettista dal pericolo di una superficiale rappresentazione dell’idea. Superficialità e approssimazione che hanno causato e continuano a causare il pressapochismo di una certa Architettura dalla quale si vogliono prendere le distanze. Un’idea apprezzabile, se mal rappresentata, produce il più delle volte risultati insoddisfacenti.
Immagini tratte da:
L. Bettinardi (a cura di), Massimo Carmassi: idee di città
Il libro è una raccolta selezionata di percorsi di ricerca formale, sintattica e grafica, che si sono succeduti nel corso degli ultimi dieci anni di attività accademica del Prof. Massimo Carmassi, seguiti dell’Arch. L Bettinardi in veste di assistente.